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MAURO BUZZI.FOTOGRAFIE 1977-1988,Catalogo mostra antologica,Colorno[fotografia
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Detalles
Descripción
a cura di
Comune e Pro Loco di Colorno,
MAURO BUZZI.
FOTOGRAFIE 1977-1988,
Catalogo della mostra antologica,
Palazzo Ducale, Colorno,
Tipografia La Colornese, Colorno (Parma) 1988,
prima edizione,
brossura illustrata, sovraccoperta, 23x22 cm., pp.108,
numerose illustrazioni fotografiche a colori,
peso: g.500
CONDIZIONI DEL LIBRO: ottime,
un po' sciupata la sovraccoperta
dal testo introduttivo:
La provincia emiliana, che è poi quella di Bernardo Bertolucci, di Marco Bellocchio, ma
soprattutto di Attilio Bertolucci, è segno e luogo di una precisa esperienza di elaborazione di
una particolare vicenda culturale, è luogo di un processo, non regionalistico, di revisione di
modelli «arcaici», nazionalpopolari, e di accostamento a vicende di più ampia portata. Penso
«in primis» alla Storia dell'Arte, al Parmigianino, al Correggio, al Beni, all'esperienza di
riviste letterarie e politiche come: «Officina» e «Quaderni piacentini», ma soprattutto alla
lettura della «padanità» data da Francesco Arcangeli: una terra che ha generato il
Romanico, il Barocco, e che assomma in sè una concezione esistenziale, umana, informale,
anarchica, popolare, che fa dunque appello alle molle più profonde dell 'uomo: l'inevitabile
fisicità del corpo, l'intensità dolce e lenta dell'azione, la forza del sentimento, il raptus della
fantasia, che sbanda sovente in un ramo di mansueta follia.
Tutto vive di un tono onirico, e un po' melodrammatico, che negli emiliani è «carne e
passione», «concretezza», gesto largo, ma presa diretta di cose ed eros — come in Verdi —
fierezza e sensualità di una «provincia estrema e combattuta d'Europa». Il lavoro di Mauro
Buzzi oscilla, appunto, fra questi paralleli e evidenzia da un lato proiezioni autobiografiche
che danno voce ad un desiderio di ribellione spingente alla fuga, dall 'altro spìnte
emblematizzanti, allegorizzanti che giocano sulla luce, cangiante e concreta che si muta ad
ogni istante in spazio di figure, memoria, sogno.
Negli anni Settanta Buzzi guarda, con la sua ricerca fotografica, soprattutto all 'oggetto. Si
tratta di un oggetto (1977 circa) che viene giocato su un pensiero che spezza le connessioni
logiche per trovare nell'inconscio una verità nascosta, profonda, evidentemente erotica, la
magia di un istante unico ed irripetibile, un oggetto liberato dall'appiattimento cui lo
costringe la razionalità sociale dello scambio, della mercificazione, e della convertibilità.
Come i surrealisti, e penso a Man Ray, a Duchamp, a Picabia, a Bunuel, Buzzi cerca
nell'inconscio l'opposto di ciò che persegue il nichilismo, vale a dire l'opposto della
riduzione universale di ogni valore a valore di scambio: cerca invece l'inatteso,
l'inconfondibile, ciò che non si lascia sostituire nè scambiare, l'irriducibile unicità, una
rivelazione veloce e fuggitiva.
Questi oggetti rifiutano però l'immaterialità contemporanea,
non sono visibili, ma se mai illeggibili, come quelli degli anni Novanta, evidenziano però
una densità del reale che impedisce di vedere ciò che sta dietro di loro, ma non ciò che essi
sono come «simbolo», come «segno», come «immagine». Essi vogliono vivere esteticamente,
ma nello stesso tempo affermare che ogni cosa è «fuori posto», che risulta dis-locata, de-
situata,. Gli oggetti di Buzzi sono alla ricerca della magia, del sortilegio, rivelano dunque
l'arte — ieri e oggi — nella sua essenza camaleontica, essa è incubo e sogno, meraviglia e
gioco, fascinazione e disastro.
Le mele, le lattine, i ferri da stiro, i tubetti di colore, le cerniere lampo, le mani dipinte di
Buzzi rimandano a dei precisi referenti storici del Surrealismo e del Dada, ma direi anche
alla Pop-art, e in particolare a Jasper Johns, ai suoi oggetti sensuali, resi organici da una
forte carica erotica di superficie. Le cose non appaiono semplicemente desituate rispetto ai
contesti dell'abitudine, ma scoprono anche il loro fondamento, esibiscono il fine, che è
mostrare «altro»: origine e futuro.
Ma Buzzi è anche, giustamente, un fotografo alla ricerca di ciò che perisce, o di ciò che
sparisce: «gli orizzonti» padani con le loro luci e i loro spazi un po' soffocanti, le statue di
un giardino che il tempo ha ormai già intaccato e mutato. Buzzi sembra ora alla ricerca
della poesia, di un paesaggio che è lì ad indicare le metafore delle origini, dell'elementarità
dei sentimenti, della metamorfosi della nostra condizione di vita.
Autobiografìa e paesaggio-ambiente, sono due componenti che immediatamente forniscono
una attendibile caratterizzazione di questo lavoro. Buzzi cerca di cogliere in questo
paesaggio che si va disperdendo uno «stile», questo perché il paesaggio si presenta come un
certo modo di «strutturare insieme», di organizzare, di comporre i dati sensibili della realtà:
ciò che si vede e si sente è una «scena», e in quanto scena il paesaggio e le cose si
manifestano sotto forma di: «un'organizzazione di percetti, che stanno tra stupore e
meraviglia». Chi, come Buzzi, è capace di trovare questa «misura dello sguardo», chi è
disponibile al «contagio», che accetta il coesistere di immagini arcaiche e sacrali, di
frammenti di passato, che attraversano i confini del presente fino a confluire nel futuro, e chi
è capace di «vedere» intensità nell'ovvio metropolitano, questa persona risulta «comunque»
legata alla natura.
Buzzi testimonia che esiste un «misticismo» nordico, o soltanto padano, che rifugge in parte
l'apparenza visibile, e quando tenta la via dell'espressione è sempre imprigionato in una
traduzione concettuale e simbolica degli eventi, è condizionato da una significazione
allusiva, ma spesso soavemente avvolta nel grigio luminoso della nebbia.
Marisa Vescovo